Etimologia del termine “cartone animato” e perché non si addice agli anime

In Giappone la parola “anime” vale sia per l’animazione occidentale, sia per quella orientale. La ragione per cui ciò non si può applicare anche al termine “cartone animato” deriva dalla sua etimologia: mentre “anime” è un termine universale, “cartone animato” si riferisce a un preciso genere narrativo.

Etimologia

L’espressione “cartone animato” nasce in realtà da un calco semantico.

Il calco semantico è il processo secondo il quale attribuiamo un nuovo significato ad un termine già esistente.

L’origine del termine risale al rinascimento italiano, quando si iniziò ad usare la parola “cartone” per definire la varietà di carta impiegata in disegni preparatori di dipinti, vetrate, mosaici e arazzi.
La parola passò successivamente in Francia, che la integrò generando il vocabolo “carton”, da cui nel 1671 derivò l’anglosassone “cartoon”.
A partire dal 1843 il termine “animated cartoon” si riferì alle vignette umoristiche e satiriche pubblicate sulle riviste. A quei tempi, la parola “animazione” non era ancora sinonimo di immagini in movimento, poiché il cinematografo venne inventato alla fine del XIX secolo. Fu solo allora che nacquero i primi film disegnati, così “animated cartoon” acquisì il significato di “vignette animate” (generando l’incongruenza semantica).

É quindi plausibile attribuire il termine “cartone animato” (animated cartoon) a Bugs Bunny, poiché il contenuto umoristico e satirico permane sia nel significato della parola, sia nell’animazione del coniglio; ma ciò non può avvenire in opere di animazione a sfondo drammatico.


Giannalberto Bendazzi, nel suo saggio “Cartoons”, ha infatti disdegnato il termine cartone animato come sinonimo di disegno animato.

Per saperne di più vi rimando a questo articolo che fino ad ora mi sono limitata a sintetizzare.

Animazione giapponese

Riguardo gli anime, di seguito vi riporto le parole di Susan J. Napier: professoressa di letteratura e cultura giapponese presso l’università del Texas ad Austin.

Rinomato critico di anime e manga, Napier è tra i più celebri studiosi di animazione giapponese.

Secondo un’accezione generica in Occidente si tende a definire anime come sinonimo di “cartone animato giapponese”, sennonché una simile definizione non fornisce l’esatta idea della complessità e della varietà che caratterizzano questo medium. Nonostante un ormai sorpassato luogo comune occidentale che riduce l’animazione giapponese a un prodotto rivolto a un pubblico infantile o, al contrario, a carattere pornografico, confondendo in entrambi i casi una parte per il tutto, in realtà l’anime è allo stesso tempo un prodotto di intrattenimento commerciale, un fenomeno culturale popolare di massa e una forma d’arte tecnologica. Esso è potenzialmente indirizzato a diverse tipologie di pubblico, dai bambini, agli adolescenti, agli adulti, fino ad arrivare a una specializzazione del target sostanzialmente mutuata da quella esistente per i manga (fumetti giapponesi), con anime concepiti per categorie socio-demografiche specifiche quali impiegati, casalinghe, studenti e altro. Essi possono, pertanto, trattare soggetti, argomenti e generi molto diversi tra loro come amore, avventura, fantascienza, storie per bambini, letteratura, sport, fantasy, erotismo e molto altro ancora.

Kishōtenketsu

Tra animazione orientale e occidentale c’è una profonda differenza tecnica, oltre che culturale.

La narrativa occidentale è strutturata in tre tempi: inizio, svolgimento e conclusione.

Questi tre atti ruotano interamente attorno ad un conflitto. Ovvero, in una storia occidentale si introduce subito il conflitto per poi raggiungere il climax e condizionare, di conseguenza, la conclusione.

Anime e manga sono invece strutturati sulla narrativa in quattro tempi Kishōtenketsu, la quale non ha bisogno di un conflitto per funzionare, poiché si basa sul colpo di scena del terzo atto. Esso può perfino creare una tensione irrisolta, invece di un conflitto risolto e questo è ciò che rende la storia interessante per il lettore: la narrativa Kishōtenketsu è più realistica, perché fedele alla vita.

Contesto culturale

Non dimentichiamo che gli stessi manga (da cui vengono generalmente tratti gli anime) sono parte integrante della cultura letteraria giapponese, quindi i personaggi di anime e manga possono essere considerati moderne icone della tradizione locale.

Statua dedicata ad Usopp, personaggio di “One Piece”. Eretta nella prefettura di Kumamoto, luogo di nascita dell’autore Eiichiro Oda.

È dunque completamente diversa la concezione culturale dell’animazione tra Giappone e società occidentale.
Quando importammo anche noi i primi anime, l’idea che l’animazione non fosse riservata esclusivamente ai bambini era piuttosto lontana dalla mentalità dell’opinione pubblica, così nacque il pregiudizio più famoso del mondo:

animazione = prodotto necessariamente destinato ai bambini = i giapponesi fanno “cartoni animati” diseducativi.

Dubito che gli stessi cartoni animati siano nati siano nati come prodotto destinato esclusivamente ai bambini. Il problema sta infatti nella nostra concezione culturale: mentre la società occidentale associa automaticamente l’animazione all’infanzia, in Giappone non è così.

Le parole “anime” e “cartoon” racchiudono non soltanto la variazione del termine “animazione” in sé, ma anche e soprattutto la differenza tra stile di disegno, stile di narrazione e concezione culturale.

Ecco perché è importantissimo abbandonare il termine “cartone animato giapponese”, in favore di altri come “serie animata”, “anime”, “animazione” e “film d’animazione” (o semplicemente “cinema”, perché di fatto questo è).

La parola “anime” significa “animazione” (NON “cartone”) ed è per questo che in Giappone si utilizza senza distinzioni.

Certo, il linguaggio di uso comune è il più duro a morire e gran parte di voi in questo momento starà pensando: «Chissenefrega! Si fa prima a dire cartoni», ma ora sapete che state utilizzando il termine sbagliato, perché anime e cartone animato NON sono affatto la stessa cosa.